Quale emblema del lavoro maggiormente alienante, secondo la tradizione della sinistra, veniva raffigurato il minatore.
Molto più del lavoro in catena di montaggio -chi non ricorda la parodia di Chaplin?- il minatore viveva a suo modo una decontestualizzazione spazio temporale; in quegli antri profondi non aveva senso discernere il giorno dalla notte, soprattutto la luce del sole e delle stelle -Ciaula e la luna!-. Nel nostro occidente opulento la figura del minatore è stata sostituita da altri lavoratori che vivono di notte la propria identità lavorativa. Operatori ecologici, medici e paramedici, forze di polizia e tanti altri lavoratori sono impegnati in quelle fasce orarie in cui la maggior parte della gente riposa nel suo letto.
È nata da poco un’altra categoria di operatori notturni, quella degli impiegati nelle sale Bingo. Il Bingo è il gioco che differisce dalla nostrana tombola solo per il nome – vezzo antico l’italica esterofilia! – importato dagli States con grande successo soprattutto al sud Italia.
Cosa c’entrano i bingo-worker con i minatori? Semplice: anche per loro si profila una tensione lavorativa decontestualizzante. Soprattutto perché non possono avere aspettative di trasferire le proprie mansioni ad orari consueti. Infatti, mentre per le categorie succitate i lavoratori hanno la consapevolezza che il lavoro notturno è una casualità oppure un obbligo momentaneo, i lavoratori del Bingo operano soltanto di notte, fino alle cinque-sei del mattino: e l’unica possibilità per tornare ad una vita normale è cambiare mestiere.
Va da sé che l’indice di stress di un siffatto lavoro è molto alto, a dispetto dei turni di compensazione e degli stipendi un po’ più incentivanti.
Chi lavora in questo contesto lavorativo è costretto ad un cambio perenne di fuso orario, all’inevitabile impossibilità di incontro con la gente che li circonda, a vivere una idiosincrasia situazionale e esigenziale con la propria famiglia; fame, sonno, stanchezza, voglia di divertirsi o fare sesso, perdono sincronicità e sono trasfusi in una realtà schizoide in cui perenne è la domanda: il mio tempo è quello del lavoro oppure del mio contesto sociale?
I lavoratori che posseggono legami esterni alla realtà lavorativa -famiglia, affetti, figli- subiscono l’attacco stressante dell’eterno time zone che debilita il corpo e la mente.
Coloro che invece non hanno richiami esterni finiscono per vivere soltanto il tempo del Bingo: per questi lavoratori la vita degli altri -vecchia e non più agognata normalità!- diviene l’antimodello da cui allontanarsi per rifugiarsi in un mondo autoreferenziale -la grande famiglia del Bingo- dove il proprio vissuto si identifica con le vite dei colleghi tra cui magari trovare l’anima gemella, con i loro problemi e gioie, tutto scandito dal ritmo di un orologio biologicamente invertito. Il mondo là fuori non serve più; non più cinema, telegiornale o quotidiano: la sopravvivenza impone alienazione e desensibilizzazione umorale.
La coesistentività dei soggetti con il gioco diviene più tangibile qualora se ne conoscano le dinamiche lavorative: il ritmo è la cifra che caratterizza il sistema, non solo quello dei numeri -fino a 90, ripetuti spasmodicamente, con voce inalterata per tutta la notte, per tutte le notti- ma anche quello di velocità di esecuzione delle partite e di vendita delle cartelle, dove ogni lavoratore è una rotella dell’ingranaggio che nutre il Grande Bingo.
Il caso di S.
S. è una bella donna di 30 anni, portati molto bene. Da pochi mesi è inserita nel gioco-lavoro del Bingo. Ha fatto molte selezioni, tra centinaia di persone, e si è ritrovata ad essere portata ai ruoli più alti di controllo e comando. S. ha sempre dovuto lottare nella vita, rimpiange di non aver potuto per motivi economici laurearsi, ha svolto lavori molto umili, ha convissuto con la paura di rimanere senza lavoro e senza sostegno. Il suo sogno è formare una famiglia ed avere due figli di cui già avrebbe scelto i nomi, un maschio ed una femmina! Vive sola e si sente sola anche se da un po’ di tempo è fidanzata con un uomo che ha le carte in regola per essere quello giusto, ma su cui non vuole fare affidamento poiché ha ‘paura di essere abbandonata’, mostrando il risentimento e limiti della relazione genitoriale adolescenziale – sette anni or sono, la mamma è deceduta ed il padre, genitore periferico, si è risposato -.
I suoi rapporti con il cibo sono sempre stati patologici: da bambina non mangiava per cui veniva sottoposta a cure ricostituenti a base di iniezioni; adesso è molto magra pur mangiando spessissimo, ma introduce solo piccole quantità di cibo; la maniera di chiedere affetto alle persone vicine è proprio tramite “qualcosa da mangiare”!
A circa tredici anni S. fu espiantata dalla città dove viveva tra amici e natura per essere ricondotta in un’altra realtà cittadina che non ha mai veramente accettato: lo dimostra il fatto che da quel momento in poi ha dato vita a comportamenti autolesionistici che non ha più abbandonato: “Mi infilavo le unghie negli avambracci e tiravo, strappando tutto.”. Quando aveva tali crisi la fermavano per evitare che si facesse molto più male; solo poche volte le è capitato di pensare al suicidio. Al momento due tic nervosi (si succhia un dente e si tira i capelli sul lato destro in continuazione) sono la sua valvola di sfogo, eterno gaiser del suo ribollire interiore.
Da quando lavora nel Bingo – tante ore e tanti chilometri, pochissimi i giorni liberi ma dedicati a dormire – S. vive sulla soglia della decontestualizzazione, è tentata di realizzare quel processo di mimesi con il lavoro, che come ruolo e denaro la soddisfa, ma è tenuta legata al mondo della luce dal fidanzato che la tira verso il vissuto normale in modo incessante e che vorrebbe il suo autolicenziamento. La sofferenza di S. in tale dilemma non è evidente a tutti, poiché lei ride, scherza, è lavorativamente ineccepibile; però ha perso peso, tanti chili, non si cura più, mangia quando capita ciò che capita, se non lavora è nel letto, non vuole fare sesso -cosa per lei inusitata!- e fuma tanto -simbolo di comando perché lei può fumare sul lavoro!-. In pratica, l’autolesionismo della ragazzina strappata dai suoi luoghi d’infanzia sta tornando alla luce in veste diversa, con il suo grido di aiuto che però non vuole sia ascoltato, mentre continua il suo lavoro-gioco. 7, 26, 81. è stato chiamato un Bingo!
Facilmente prevedibile è l’esito ultimo della vicenda: al momento S. appare in stand by a causa della incapacità di razionalizzare gli eventi per operare una scelta -se vivere il giorno oppure la notte!- ma la tendenza autodistruttiva che si porta dentro avrà il sopravvento.
Nicola Tenerelli
Ps. pochi mesi dopo la stesura di questa analisi S. ha mollato, in sole 12 ore, sia lavoro che il fidanzato, rifugiandosi nel suo vecchio lavoro e nel suo vecchio stile di vita adolescenziale.